NIGRA SUM SED FORMOSA

Iter di un restauro

L’arrivo della statua a Tindari è avvolto da un alone di pie cronache. L’abate Spitaleri nel 1751 accenna alla «Immagine miracolosissima di Maria santissima con stupendo portento venuta dall’Africa».

Di recente, nel 1949, il vescovo Ficarra, umanista e storico, preferisce asserire: «possiamo solo pensare che la venerata icona sia stata portata dall’ Oriente», quindi che, «è assai antica e di stile bizantino», ipotizzando il tempo del suo arrivo: o in epoca iconoclasta o meglio «durante il periodo delle crociate, quando le galee delle Repubbliche Marinare veleggiavano di continuo verso il mondo orientale ed il rito greco fiorì a lungo nella nostra Sicilia».

Diffusa è la convinzione che il simulacro della Madonna sia un assemblaggio di legni e stoffe e che siano originali solo alcune parti.

Totalmente perduta è la memoria della forma medievale. Sono invece leggibili nella stessa immagine le vicende che si sono susseguite nei secoli, gli interventi inevitabili, diligenti ed intelligenti talvolta, disastrosi e privi di ogni gusto tal’altra.

Da oltre un secolo non pochi uomini di cultura e fede chiedono di verificare il processo storico dell’immagine e di intervenire a salvaguardia della sua integrità. Il dilemma si acuisce a inizio degli anni ’80, mentre è vescovo di Patti mons. Carmelo Ferraro, ma solo nella Pasqua 1995 il nuovo vescovo mons. Ignazio Zambito, d’intesa con il rettore del Santuario Don Antonino Gregorio, decide per l’intervento.

E’ interessata la Sovrintendenza ai Beni Culturali di Messina che, con la supervisione della dott.ssa Ciolino, dà il placet. Supportata da uno storico dell’arte e da due teologi, una èquipe di specialisti prende in consegna, nell’ottobre dello stesso anno, la Madonna del Tindari, trasferita in un laboratorio nei pressi di Palermo.

La Madonna del Tindari si presenta coperta da un piviale di seta bianca, su cui fiorisce un ricamo d’oro e coronata da un diadema barocco in oro, adorno di pietre e di volute che si spingono in alto per tenere un piccolo mondo sovrastato da una croce. Essa tiene in grembo, secondo un modulo bizantino, il Bambino vestito con tunica candida e con sul capo una corona regia. Fin dai primi dell’ottocento la Madonna è ricordata con veste rossa scintillante, trapuntata di stelle e mantello blu che scende direttamente da sotto il copricapo, avvolgendo le spalle e l’intera persona e inglobando il trono. D’oro le scarpe. La Madre stringe con la sinistra a se il Figlio, posto sulle ginocchia e e con la destre sorregge un giglio d’argento.
Una dicitura, incisa sul basamento della statua, recita: “Nigra sum sed formosa”.

Ripresa dal Cantico dei Cantici l’espressione significa la bellezza di Maria nel colore brunito del viso.
Sotto il manto ottocentesco è una struttura lignea. Da un’ampia fessura preesistente, sulla parte posteriore del simulacro, appare il blocco ligneo scavato in legno di cedro in cui sono inseriti elementi estranei con funzione di puntellatura. Ai lati si constata, eseguiti alcuni tagli, la presenza di un tronetto. Fatiscente la struttura lignea, mancante di diverse parti, ridotta spesso , per l’azione di termiti e tarli e per mancanza di cure, ad ammasso di polvere. Là dove resta ancora, il pigmento pittorico è fragilissimo, perché staccato dalle pareti del legno.

 Assurda l’opera di “falegnami” che negli ultimi due secoli innestano, a più riprese, tela di sacco, tavole, chiodi e cunei per aggiustare la statua, così come di “pittori” che sovrappongono stucchi e vernici senza cognizione di scienza e d’arte. Al cospetto di tanto degrado sa di sfida la volontà di recupero dell’immagine medievale.

I primi sondaggi riguardano il manto blu su cui si registrano cinque strati di colori.

Altrettante sovrapposizioni cromatiche si riscontrano sulla veste della Vergine, sull’abito di Gesù  e sui visi della statua.

Dopo accurate ripuliture, gli occhi, come ipotizzato, risultano aperti, sebbene da secoli occultati da stratificazioni di colori e vernici, da incrostature di fumo e polvere. La loro forma non appartiene alla cultura latina né a quella bizantina. Si qualifica come mediorientale (siriana o palestinese).Lo stesso segno cromatico è di chiara matrice araba. Ricorda per la linea e l’energia  il kajal, che le donne egizie o assire utilizzano come cosmesi.
Il disegno del copricapo, scolpito nel blocco ligneo, testimonia la preesistente tradizione ellenistica delle regioni meridionali. Sulla parte alta si trovano tracce di lacche rosso-arancione. In alcuni tratti manca il rilievo ornamentale, rovinato probabilmente dalla forzata  sovrapposizione di nuovi diademi di ottone e d’oro.

Esaurita l’analisi delle ridipinture degli ultimi due secoli, l’equipe dei restauratori scopre, sotto la “camicia” della Madonna, una tavola lignea a finte pieghe, il cui azzurro-lapislazzuli è almeno trecentesco.

E’ evidente che gli abiti di tela sono tardive  sovrapposizioni, che occultano un’architettura di notevole interesse, ben articolata con superfici intagliate e con decoro di lacche policrome. I l manto medievale della Madonna, che non è secondo il canone di Bisanzio, ma della tradizione latina, si presenta rosso con decorazioni a stelle d’oro medievali. Sorprendente si rivela il rilievo scultoreo dell’abito del Bambino. Si tratta di modellazione bizantina, tipicizzata dalla forma “a greca”, accesa da lacce rosa e rosse.

La mano destra della Madonna è ricoperta di materiale terroso,  con aggiunte nelle dita di fil di ferro, gesso, colori. Non è originale. La fattura è seicentesca, con interventi ottocenteschi che ne snaturano la forma medievale, “dovendo” ora stringere un giglio. Della sinistra, nascosta dalla cappa di tela, vengono recuperate quasi tutte le parti, eleganti nella composizione romanica.

Benché ingrossate da stucchi e vernici, le mani del Logos sono originali. La testa è ingrandita da folta capigliatura e grossolane treccine di calce, cera e colori bituminosi.

Disperata è la condizione della struttura sconnessa e fradicia, mancante di non pochi pezzi, tenuta in piedi da assi e tavole in maniera rozza. Lo strato di preparazione della pittura non aderisce  al legno, divenuto cavernoso e secco per l’azione di termiti, tarli  tarme che formano infiniti cunicoli e caverne.

Dura sette mesi il lavoro di restauro.

Per non disperdere alcun frammento di colore e decorazione, i restauratori, dopo parecchie disinfestazioni esterne ed interne, intervengono mediante particolari colle naturali per riattaccare la pittura alla superficie lignea, cha acquista nuova compattezza.

Ha quindi inizio la fase dell’assemblaggio delle parti. Il Simulacro è liberato dalla pedana, risalente a fine ottocento e di nessun valore. Per ricostruire l’unità architettonica della scultura si realizzano con legno di tiglio, diverso da quello antico, la fiancata destra del trono ed il lembo destro (per chi guarda) del mantello, nel rispetto dei moduli stilistici.

Ultimata l’azione di cucitura delle parti, di chiusura delle fessure con pasta lignea e di saldatura del pigmento pittorico alla superficie scultorea, le lacune del simulacro vengono riempite di stucco. Procedimento che serve di preparazione all’intervento di ritocco ad acquarello,nelle zone prive di colore, secondo la tecnica del rigatino (consistente in numerose linee perpendicolari, che l’occhio attento scorge), che sottolinea la differenza tra antico e moderno.

Non è casuale né arbitraria la composizione cromatica della Madonna del Tindari i cui colori sono  indicativi di un sistema semantico ricco di valori simbolici che rispondono all’idea teologica del medioevo europeo e mediterraneo, che affida alla pittura emozioni e pensieri.

Sono visione di natura umana e divina i volti scuri di Maria e di Cristo. Vestito di rosso porpora è il Logos benedicente alla latina: re e sacerdote. Lui è icona dell’essere.
La madre è avvolta da un mantello franco-italiano, splendente di un rosa denso, quasi rosso, decorato di stelle d’oro. Pienezza di luce e di vita. Sanno di mare e di cielo, di profondo e di infinito, del mistero di Dio il blu del colubium e l’azzurro-verde che scende sulle spalle. E’ immagine di primavera e giovinezza la gamma dei verdi che strutturano le vesti. Di giallo-oro rifulge il diadema mediorientale della Vergine, che sembra possedere il sole del Pantocrator.

Anche gli abiti scintillano di lamelle e filamenti aurei, epifania dei colori del cosmo.

Molti elementi stilistici indicano come autore un maestro della scultura francese, originario della Borgogna o dell’Alvernia, che vive in medioriente al seguito dei crociati. Forse un crociato egli stesso, operante in Siria, nei pressi della città di Tartus, dove di trova l’imponente cattedrale dedicata a Maria.

E’ probabile che un alto committente, un vescovo, un principe normanno, un abate del meridione d’Italia o della Sicilia, chieda a lui la creazione di un simulacro ligneo destinato al culto. Ed egli lo scolpisce utilizzando un albero di cedro, tipico della regione, secondo la tecnica dello svuotamento del tronco praticata nel sud della Francia.

Pur esprimendo le sue radici, l’artista tiene conto della scuola costantinopolitana e della tradizione mediorientale. Con maestria realizza una Madonna seduta in trono che tiene sulle ginocchia il Logos, sintesi sintesi della dimensione teologica e culturale del romanico. L’oriente e l’occidente, sebbene con diversità di linguaggi e forme, si ritrovano in quest’icona, che si offre quale sacramento di unità.

Una Madonna che è Theotokos e HodigitriaSedes sapientiae e Platytera, tra XI e XII secolo, su una delle tante navi cristiane che collegano di continuo le sponde del “mare nostrum”.

Dopo aver subito a lungo manomissioni e trasformazioni, l’icona lignea e pittorica della Madonna di Tindari torna,  per l’amore di un vescovo e della sua Chiesa, a risplendere di luce medievale.